No cin cin per Kikosan: reminiscenze di viaggio nell’Impero del Sol Levante

No cin cin per Kikosan: reminiscenze di viaggio nell’Impero del Sol Levante

Settembre 2, 2020 0 Di .

Il teatro di scena di questa mia avventura è la città di Omaezaki, 250 km. A sud di Tokyo nell’isola Honshu, in Giappone.

Era la primavera del 1985.

Ero stato invitato a partecipare alla coppa del mondo di windsurf.

In quegli anni la coppa del mondo era gestita, in modo quasi dittatoriale, dalla WBA: l’associazione costruttori di tavole e vele. Il numero di partecipanti era limitato a 64 atleti. Come nella Formula 1 le case costruttrici si facevano carico dell’”entry fee” (costo di partecipazione) dei loro rispettivi atleti, al tempo salatissimo.

L’ex velista francese Bernard Ancel, titolare della ditta di vele omonime e distributore delle vele “hood” per il windsurf, aveva pagato la mia partecipazione.

Bernard credeva nel mio entusiasmo più di quanto lo giustificasse il record dei miei passati risultati: “Chico, anche se non vincerai, sarai comunque un ottimo testimonial e per me vali l’investimento”  mi disse. La sua frase si rivelò presagio.

Una mia “gaffe” involontaria mi rese infatti “famoso” sin dall’inizio.

La cerimonia d’apertura aveva il protocollo classico delle manifestazioni sportive giapponesi.

Mentre da noi nelle inaugurazioni, si usa lo champagne o lo spumante, in Giappone si usa lo “sakè”, un liquore tipo grappa di riso servito ad 80° di temperatura.

Eravamo tutti seduti attorno ad un enorme tavolo rotondo. Atleti, sponsor, politici, organizzatori, giornalisti (Pietro Porcella in prima fila!) accovacciati attorno ad una tavola al centro della quale c’era una tazza formato vasca da bagno colma di sakè.

All’epoca io ero un po’ il rappresentante del gruppo nel settore intrattenimento (con Pietro sempre al mio fianco!) pre e post regata. I vari amici Robby Naish, Pete Cabrinha, Robert Theriteau e Nathalie Lelievre  mi convinsero a fare gli onori di casa (loro!). Il rito consisteva nel sollevare un mestolino di ceramica bianca verso il cielo, abbassarlo intingendolo nella tazza (una volta sola, visto che i giapponesi sono germofobici per antonomasia), portare il liquore alle labbra sorseggiandolo tipo sommelier (senza lo sputo, chiaramente!), appoggiare il mestolino sul tavolo con un grande inchino finale a chiusura rituale.

Il tutto nel più assoluto silenzio!

Io eseguii la prima parte del rito alla perfezione. Al momento del sorseggio non seppi resistere alla tentazione ed esclamai a voce alta: “Cin cin!”, (dopotutto noi lo usiamo sempre a Capodanno…). Notai dello scompiglio nel settore organizzatori e politici (come i nostri assessori allo sport, solo con gli occhi a mandorla) e dalla loro espressione sembrava quasi fossero offesi dal mio gesto.

“Che non mi abbiano capito?” , mi chiesi perplesso, e ripetei ancora più forte: “Cin, cin!”

Aggiungendo un rafforzato “Suki katte ni shiro, cin cin!” “Servitevi e festeggiate con un cin cin!”. Con la velocità di un centometrista si avvicinò uno dei responsabili che, semiterrorizzato e tutto rosso, mi disse:”Kikosan, damè, iogonoi, saitè, iè, iè” (”Signor Kiko, male, malissimo, no, no!”). Ed io con le mie quattro parole di giapponese gli chiesi: “Sumimasen, yukkuri hanasu. Doshita no?” (“Mi scusi, parli lentamente, ma che cosa ho fatto?”). E lui, indicandomi la patta dei pantaloni: “Cin wakui kotoba imi suru inkei!” (“Cin, brutta parola per dire pene!”).

Immediatamente mi resi conto della gaffe commessa e del motivo dell’improvviso rossore sul viso delle eleganti signore presenti. Feci un pomposo inchino e dissi a voce alta: “Sumimasen!” “Vi chiedo scusa!”. La cerimonia proseguì senza ulteriori incidenti. Gli amici, come si resero conto dell’accaduto, si sbudellarono dalle risate!

Tutto sommato però, il partire con il piede sbagliato mi aiutò ad essere conosciuto (vi garantisco che non fu pianificato). Pur essendomi classificato al 25° posto venni comunque invitato, unico windsurfista, dalla Asahi TB, una delle più grandi televisioni del Giappone, a una trasmissione equivalente alla nostra Domenica Sportiva (se esiste ancora, non sono molto aggiornato!)

Il programma si intitolava “Sports Usa”. Campioni di varie sport americani o americanizzati, venivano intervistati mentre veniva applicato loro un “polipo” di sensori atti a rilevare la condizione fisica dell’atleta. Nel mio caso, da buon trentino, mi fecero usare la bicicletta stazionaria. Durante l’intervista, parte in inglese e parte in giapponese (utilizzai le poche frasi memorizzate) dovevo pedalare in avanti, come è naturale con la bicicletta da strada. Tutto bene fino a metà intervista quando in una pausa, senza pensarci, diedi due pedalate in senso opposto, facendo impazzire il grafico dell’oscillometro collegato ai sensori, come un sismografo colpito da una scossa tellurica sussultoria dell’ottavo grado della Scala Richter! Ai tecnici presenti, sempre attenti ai dettagli (già potete immaginare ciò che capita a chi sbaglia in Giappone, “harak,,,) per poco non è venuto un infarto.

Una volta ripristinata la procedura corretta terminai un’intervista senza inceppi, facendo fare in diretta una grande risata a decine di milioni di telespettatori.

Infatti la trasmissione ebbe un rating d’audience elevato (gli altri ospiti erano pezzi da novanta della pallacanestro e del baseball) e alla fine mi fecero firmare/disegnare, con il mio pupazzetto di Hang  Loose, una decina di magliette per produttori e tecnici (ancora in panico) presenti.

Il capo produttore fu entusiasta della mia performance e mi chiese di fare un saluto che avrebbe dovuto essere tipico italiano. Visto il clima di competizione e i pochi secondi a disposizione per decidere, feci il segno di vittoria con indice, medio e pollice destro. Il conduttore, a mia insaputa, aveva nel frattempo annunciato in diretta che in Italia ci si salutava così (forse in seguito alla mia errata pronuncia). Terminammo la serata con cena all’Hard Rock Café di Tokio (che non pagava i diritti alla casa madre americana…questi giapponesi quando possono copiano tutto!). Il maître del ristorante (forse in giapponese non si chiama così) mi fece ancora una volta, e con i crampi alla mano, firmare e disegnare una maglietta. Questa volta però la fecero incorniciare e prima di fine pranzo l’appesero a fianco di cimeli di atleti e cantanti famosi. Il potere della televisione!

Per anni a seguire, il mio “sketch” rimase su quella parete. (Chissà se c’è ancora… Magari uno di voi in viaggio a Tokyo può accertarsene!).

Quella stessa sera il produttore-chaperon ricevette una telefonata da Haruo Kurokawa che voleva congratularsi con me.

Haruo era il titolare della Marine Planning Co., la più grande casa editrice di riviste sugli sport nautici del Giappone, editrice della rivista “Hi Wind” considerata da molti la più bella rivista di windsurf al mondo.

A dire la verità ci si deve un po’ abituare a leggerla perché, oltre che ad essere in giapponese, si legge da destra verso sinistra. La nostra ultima pagina è la loro copertina!

Haruo, entusiasta del programma, mi invitò ad andare a visitare la redazione di “Hi Wind” il giorno seguente. Mi invitò inoltre a trascorrere qualche giorno nella sua villa sulle colline di Tokyo. Per convincermi (come se ce ne fosse stato bisogno) mi disse al telefono: “Kikosan, geishaaa!!!” (non credo serva tradurre…).

La mattina del giorno seguente altro episodio divertente.

Per andare da Haruo a “Hi Wind” decisi di prendere la metropolitana. Una cosa rara per un non giapponese (almeno a quel tempo) visto che le scritte segnalatorie erano solo in kanji e katakana. Se non si sanno interpretare, si è nei guai. Anche perché di chiedere indicazioni ad un giapponese a Tokyo è una cosa impossibile. Durante il viaggio mi accorsi che una coppia di passeggeri continuava ad indicarmi sorridendo, quasi mi conoscessero e volessero salutarmi. Io pensai che, essendo l’unico non “giap” sul treno, per loro era un po’ come essere allo zoo. Comunque, per educazione feci un cenno di riscontro, contraccambiando il sorriso. E salutai con la mano aperta.

A sorpresa mi risposero scuotendo la testa a dimostrazione che si aspettavano un altro tipo di risposta gestuale. Mi ci volle poco a capire il perché. Uno dei due, con un sorriso a 39 denti, stava muovendo la mano destra con le dita nel segno della vittoria! Con lo stesso gesto che avevo fatto la sera prima in televisione. Si aspettava che, da buon italiano, rispondessi con il “nostro saluto tipico nazionale” (così come era stato descritto dall’annunciatore!).

Come replicai con il gesto di vittoria, s’illuminarono sorridendo ed emettendo dei suoni incomprensibili di approvazione che assomigliavano alla fase finale dei nostri starnuti, anche nel movimento della testa, di durata interminabile!.

Nei miei vari viaggi in Giappone ho scoperto che non ci vuole molto per far sorridere un giapponese. Di natura tendono a sorridere al più banale dei gesti, come fosse un riflesso Pavlov!

I comici professionisti non devono sudare sette camicie a Tokyo per guadagnare bene.

Alla stazione d’arrivo ormai si era diffusa la voce ed alcuni dei viaggiatori si avvicinarono per toccarmi (non i capelli che già erano radi!). Sulla piattaforma incontrai Haruo e lui mi disse che “Sports USA” era un programma molto seguito dove gli ospiti, di norma, sono celebrità dello sport  (c’è sempre l’eccezione che conferma la regola…).

Di conseguenza ero diventato per qualche giorno una celebrità e lui era onorato di avermi come suo ospite.

Arrivati alla redazione di “Hi Wind” ci fu un’altra festa tipo compleanno (anche se il mio è l’8 febbraio!) con solita serie di foto con vari sconosciuti (mi hanno detto che erano persone diverse, ma a me sembravano tutte uguali).

Finii due pennarelli indelebili autografando magliette. Credo d’aver saturato il mercato con quelle magliette. Meno male che ancora non esisteva eBay.

Feci una piccola illustrazione di Omaezaki (campo di regata) da pubblicare sulla rivista, con surf, boe, elicottero, ecc. Una pausa per il pranzo tipico di spaghettini di un millimetro di diametro con alghe marine anabolizzate e salsa verde super piccante. Mentre stavamo mangiando suonò il telefono ed un redattore sollevò la cornetta con i “chop sticks”. Alla fine, anche se non volevano lasciarmi andare, Haruo usò la sua influenza di boss e via, verso la sua “megavilla” (150 metri quadri). In Giappone “tutto” è in misura ridotta!. Haruo, pur essendo proprietario di un intero edificio nel centro di Tokyo, l’area edificabile più costosa del mondo, risiedeva in una casa della metratura di un appartamento di tre stanze in Italia. Comunque finale di serata con “Geishaaaa!”. Anche se a me, a dire il vero, ha fatto un po’ sbadigliare. Suonano l’arpa, fanno un tè squisito, massaggiano i piedi (con calzini), insomma tutte quelle cose che fanno impazzire a noi italiani!

Il giorno seguente Haruo mi confidò di aver acquistato una galleria d’arte, completa di opere, a Lahaina alle Isole Hawaii, permutandola con un miniappartamento (e se è mini per un giapponese, equivale alla metratura della mia cella!).

Inconsciamente forse è lui che mi ha dato l’idea di acquistare un albergo usando una permuta, ventitré anni dopo!

Partenza da Tokyo direzione Ohau, isole Hawaii, la spiaggia di Kaiwa a fare pratica con Robby e Pete, ma questa è un’altra storia.

Fra uno sbadiglio e l’altro spero vi siate fatti qualche sorriso.

Chiedo scusa ai puristi della lingua giapponese se ho storpiato qualche parola. Purtroppo qui mi manca la pratica!

Se però volete scrivermi in giapponese, prometto che vi risponderò nella stessa lingua prima della data del mio previsto rilascio!

Sayonara,  Chicosan