Nell’abisso della galera

Nell’abisso della galera

Settembre 2, 2020 0 Di .

In base al proverbio «Chi trova un amico trova un tesoro» da qualche tempo sono diventato ricco, ho scoperto migliaia di vecchi e nuovi amici grazie a Facebook. È proprio vero che «non è mai troppo tardi»… quando ormai pensavo che la gente si fosse dimenticata di me, ecco la piacevole sorpresa. Non esistono parole atte ad esprimere la mia gratitudine e le mie emozioni: avete ravvivato la fiamma della mia speranza. Fu detto che nei momenti di difficoltà non sono le malvage parole dei nemici che più feriscono, ma il silenzio degli amici… Devo dire che in questo caso, cari amici, avete fatto un baccano infernale, un gran chiasso che si distingue anche in questo postaccio. Perché di postaccio si tratta! Un giorno c’è il sapone, un giorno non c’è; un giorno l’acqua è calda, il giorno dopo è gelida; un giorno ti obbligano a camminare in fila indiana all’interno di strisce gialle, due giorni dopo all’esterno. Insomma disorganizzazione totale, tanto che c’è da sospettare che l’amministrazione sia di origine italiana! Come potete leggere certo non mi manca il buon umore. Preferisco la barzelletta alla commiserazione.

Il mio corpo è rinchiuso fisicamente, ma la mia mente galoppa in continuazione. Viaggia alle memorie del passato, ai bei tempi passati con gli amici.

Il sistema giudiziario americano è fallimentare, non ho più alcun dubbio, è principalmente basato sulla punizione fisica e mentale, con ben poca attenzione alla riabilitazione. Di conseguenza il recidivismo è enorme. La gente entra, esce e rientra da questo posto come fosse un supermarket. Mancano le motivazioni, le basi per cambiare in meglio, per poter vivere all’interno di una società con regole basiche.

Nei processi, quando i giudici errano, odiano ritrattare, odiano ammettere d’aver fatto uno sbaglio e coprono le spalle uno dell’altro, facendo barriera comune. Ci vuole un tsunami per aprire le porte. Se Dio vuole, voi siete il tsunami del momento! Chissà, forse Obama decide di assimilare qualche punto dal diritto latino, invece d’ammuffire con quello anglosassone.

I pochi programmi di riabilitazione sono di rara utilità. La gente qui non ha nulla da fare. La televisione è regina. Alle 9 di mattina, la domenica, trasmettono i cartoni animati dei Ninja giapponesi (originalmente creati per la fascia d’età 8-12 anni). Nella sala comune, di fronte alla televisione, non c’è un posto a sedere libero. Tutti lì magnetizzati dall’arma del dottor Goebbels, come diceva Bonvi nelle sue Sturmstruppen!

Pochi conoscono il rifugio della meditazione, e quelli che si perdono nelle reminiscenze del passato, ricordano gli innumerevoli atti di violenza commessi. Sono cresciuti fin da bambini, con la violenza come unica forma di comunicazione. Adesso sono zombies, senza passato, senza futuro e senza una base di valori umani.

Io cerco di aiutare, come posso, quel ristretto gruppo che ha sete d’apprendere, conoscere e migliorare il loro livello di vita.

Quasi tutti qui sanno chi sono. Il «tam tam» di questi luoghi propaga le notizie alla velocità del suono. Parte di loro mi stima e rispetta, parte mi guarda con circospezione, e parte è totalmente indifferente.

Grazie alla mia conoscenza delle lingue posso aiutare centrosud-americani ed haitiani con spagnolo e francese nei loro compiti di scuola. Molti mi chiedono di raccontare le mie avventure nei sette continenti; sembra loro impossibile che possa aver vissuto tanto intensamente, in così breve tempo. Una frase che mi è rivolta di sovente, sia da «marroni» che dagli «azzurri» è: «You don’t belong here!» tradotta: «Tu non appartieni a questo posto!». E se è vero che un criminale sa riconoscere un altro criminale, mi fa piacere che un «esperto» mi giudichi innocente. Forse uno dei prosecutori o giudici del mio caso dovrebbe passare qualche giorno in questo posto ad «indottrinarsi in laboratorio».

Questo è l’ottavo continente. La terra di nessuno dove l’unica legge che vale è quella del più forte. O sei predatore, e vivi con i predatori; o sei preda, e comunque vivi con i predatori. Le «prede» sono le formiche operaie per i lavori più utili. Nella classe predatoria ci sono varie «caste etniche», forse meglio note come ghenghe, che sono costantemente in lotta l’una contro l’altra. Le motivazioni sono molteplici, spesso banali: una parola sbagliata, una minestra liofilizzata prestata e non restituita, il cambiare canale televisivo, il turno del telefono. Le conseguenze sono quasi sempre catastrofiche, questi litigi infatti di rado terminano con una stretta di mano. C’è sempre la voglia, repressa o meno, di rivalsa, di vendetta. Nei litigi non ci sono limitazioni o regole d’onore.

La conclusione però è sempre la stessa: l’inevitabile severa punizione delle guardie. Purtroppo il farsi rispettare è un elemento indispensabile alla sopravvivenza dell’individuo quando ti mancano di rispetto, incontrastati aprono le porte ad altri «bulli» per fare altrettanto… e diventi preda. Io sono un po’ una mosca bianca, al centro di precari equilibri. Essendo l’unico italiano non ho un vero gruppo etnico di riferimento, tanto meno un gang.

Insegno, quando posso, a coloro che lo richiedono e ne hanno bisogno. Passo dall’aiutare l’analfabeta a leggere e scrivere, allo spiegare dove è la posizione geografica della Sicilia.

Molti collegano il fatto d’essere italiano con l’associazione ad un certo tipo di famiglia (Credevo fosse solo la polizia di Miami che lo desse per scontato!). Purtroppo più lo nego e più forte è la convinzione. Qualcuno mi chiama «Don Chico» e quando cerco di spiegare loro che non ho mai preso i voti ecclesiastici, replicano, impassibili: ma no, non quel don, quell’altro, quello delle proposte irrefutabili… stringendomi allo stesso tempo l’occhio (se ne hanno uno da stringere!) a garanzia della loro omertà. Mi ricordo ancora le parole di Mario Puzo (pace all’anima sua): «Caro Chico, le esperienze negative sono state l’essenza del mio successo». Forse questo serve d’auspicio.

Mi rendo conto, adesso, come sia facile nel caos e nell’ignoranza, trasformare il popolo in un gruppo di pericolosi fanatici lobotomizzati. Basta che tu offra loro qualcosa in cui credere. Io, qui, ho quotidianamente la possibilità di lavarmi, ricevo tre pasti al giorno e una volta ogni tanto, una coscia di pollo. Più di rado un pezzo di fegato (anche se cotto alla Charlie Chaplin) e, per la Festa d’indipendenza americana il 4 luglio 2003, ho ricevuto una fettina d’anguria. Cerco di trovare positivismo anche nell’oscurità e rifletto sul fatto che ci sono due miliardi di persone che stanno peggio di me. Che non hanno da vestirsi o un luogo riparato per dormire, che non hanno tre pasti al giorno, che non sanno cosa sia la doccia calda e, tanto meno, l’anguria. Nel contesto universale potrei trovarmi in una situazione ancora più terribile.

Eppure, in un secondo, rinuncerei a queste «comodità» per una notte sotto le stelle con i miei tre figli, sulla tolda di una barca a vela nel rollio dell’oceano. Jenna Bleu, la luce della mia vita, che con il viso sul mio petto, fissandomi negli occhi, mi dice: «Papà, so che una di quelle stelle è per noi». Quando ci parliamo al telefono Jenna Bleu spesso mi dice di tenere gli occhi aperti per gli arcobaleni, perché è sicura che ci ritroveremo alla base dell’arco.

Spiritualmente Jenna Bleu è sempre qui con me, nel mio cuore, come lo siete anche voi vecchi e nuovi amici, che state aiutando questo cuore, che ha ancora tanto da dare, al battere regolarmente! Un abbraccio a tutti. Anche se virtuale.

Chico Forti, 2009